Affermare i diritti dei minori significa tutelare il diritto dei figli ad avere rapporti costanti ed assidui con entrambi i genitori. PAPA' SEPARATI è un nome scelto con molta attenzione, perché indica la diffusa condizione dei padri, separati dai figli, ostacolati nello svolgere il loro ruolo educativo dei figli minorenni, sia per orientamenti della giurisprudenza, sia per comportamenti escludenti. .
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Salluzzo - Ruolo di sostegno di associazioni genitori

Si ringrazia l’AIPG – Associazione Italiana di Psicologia Giuridica - per
aver gentilmente concesso la pubblicazione dell’articolo tratto da AIPG
Newsletter.

Mario Andrea Salluzzo
Psicologo, Psicoterapeuta Az. USL Rm/D

Associazioni di familiari e giustizia
Tratto da AIPG Newsletter, n.19 Ott.-Dic. 2004

Svolgendo da più di dieci anni l’attività di psicologo nei servizi pubblici di salute
mentale, l’autore ha potuto assistere alla graduale ma consistente crescita
delle richieste di trattamenti psichiatrici da parte di coloro che si trovano
coinvolti in eventi stressanti come l’interruzione di rapporti familiari.
Genitori separati in difficoltà nel rapporto coi figli i quali si sono schierati con
uno di loro due. Nonni allontanati dai nipotini a seguito di incompatibilità di
carattere con generi o nuore, anche in costanza di matrimonio. Padri e madri,
valutati o sospettati di essere inidonei come genitori, che vedono internare i
propri figli in luoghi protetti o essere affidati temporaneamente ad altre
famiglie. Genitori che, dopo il deterioramento del rapporto di coppia,
apprendono che il partner, di origine straniera, a loro insaputa, è partito per
fare ritorno al paese di origine portandosi via il figlio.
Questi cittadini, disperati, col cuore spezzato, si rivolgono fiduciosi
all’istituzione pubblica. Chiedono una soluzione per la loro insostenibile
sofferenza. L’operatore, volenteroso di farsi carico del disagio del paziente per
porvi rimedio, presta ascolto ai casi per valutare le motivazioni che spingono
alla richiesta di aiuto. Le richieste spesso appaiono congrue e genuine. Ma
l’intervento psicologico e, a volte anche quello farmacologico, ottengono
risultati parziali o insoddisfacenti, così come inefficace risulta spesso il tentativo
di coinvolgere i familiari interessati. Perché qualsiasi intervento sanitario è
soggetto alla libertà di scelta, e la frequentazione o gli interventi sui minori
sono soggetti all’approvazione di chi ne esercita la potestà o ne detiene
l’affidamento. Per non parlare del caso di chi non sa più nemmeno dove si
trova suo figlio. Alla fine l’operatore viene sopraffatto da un senso di impotenza
e dichiara tutti i suoi limiti.
Al paziente sembra di impazzire. Spesso si assiste ad esplosioni di acting-out,
oppure alla perdita delle proprie competenze sociali, o alla perdita del posto di
lavoro, o all’insorgenza di disturbi psicosomatici o altre reazioni da stress. Fino
a giungere a fantasie omicidarie e/o suicidarie.
Pochi sono i casi che restano in trattamento. Spesso sono casi segnalati dai
servizi sociali. In tal caso, i pazienti continuano a venire ai colloqui sospinti
perlopiù dal desiderio di ben figurare agli occhi dei loro valutatori, quelli cioè
che dovranno relazionare al giudice sulla loro capacità di essere buoni genitori.
La partecipazione del paziente a quello che formalmente dovrebbe essere un
trattamento psicoterapeutico è falsata da una più o meno esplicita
obbligatorietà, e disturbata dall’impellente esigenza di ricongiungersi al più
presto coi propri figli. La rabbia è spesso evidente e perlopiù diretta contro gli
operatori delle istituzioni. Raramente contro i propri cari. Ma anche mettendoci
tutta la buona volontà, il trattamento sembra solo imprigionare il paziente, più
che liberarlo dai suoi problemi psicologici. Un paziente mi disse che avrebbe
volentieri preferito ritornare in carcere piuttosto che subire le misure di
allontanamento dai figli impostegli dalla giustizia.
Dal confronto con i colleghi dei servizi per l’età evolutiva emerge la concezione
prevalente della legittimità e dell’opportunità che il minore mantenga sempre i
rapporti con entrambi i genitori, ivi compresi i relativi familiari. Ben diverso è il
discorso quando si tratti di sapere come ottenere tale risultato. A questo punto
tra le esigenze della sanità e quelle della giustizia viene a crearsi una soluzione
di continuità.
E’ stato così che l’autore ha cominciato ad interessarsi della normativa vigente
trovando su internet una miriade di siti dedicati all’argomento, e, tra questi,
quelli delle associazioni di genitori che rivendicano il diritto di mantenere o
ripristinare il rapporto coi figli in tutti quei casi che sono di competenza della
giustizia.
Sembrerebbe che queste associazioni di volontariato possano offrire, a quei
familiari per cui l’istituzione pubblica poco o nulla ha potuto fare, una soluzione
alternativa; la possibilità cioè di condividere la propria sofferenza con altri
compagni di sventura, di produrre uno sforzo di conoscenza sui propri
problemi, nonché di promuovere un’opportuna attività di trasformazione
normativa e sociale.
Non è possibile dare un quadro esauriente di un fenomeno che è in continua
trasformazione ed espansione. Si può cercare però di estrarre, dall’insieme
numeroso di tali associazioni, quella tipologia che si presenta oggi con maggior
frequenza.
Le associazioni nascono di solito come piccoli gruppi su iniziativa di quello che
potremmo definire un “capo carismatico”, un capo che raccoglie al suo seguito
qualche decina di persone afflitte dalla mancanza del rapporto coi figli. Lo
sviluppo dei media - internet in particolare - ha reso possibile a costoro di
mettersi in contatto e, successivamente, consociarsi in gruppi più o meno
stabili.
Come sempre accade, in principio, tutti i gruppi e i movimenti devono
consolidarsi. Sono inevitabili le illusioni, le delusioni, e la fragilità delle
coalizioni, pronte a disfarsi alla prima incomprensione. Ma l’esperienza e la
costanza nel perseguire l’obiettivo formano, e fanno maturare coloro che
riescono a sopportare le frustrazioni iniziali. Attualmente l’organizzazione più
consistente sembra essere la Fe.N.Bi. - Federazione Nazionale per la
Bigenitorialità, che, nata nell’agosto 2003, conta ben 26 tra comitati e
associazioni. Ma almeno altrettante dovrebbero essere quelle che operano per
loro conto.
Solitamente le associazioni offrono dei servizi di consulenza da parte di
professionisti specializzati, perlopiù avvocati, consulenti psichiatri o psicologi,
mediatori familiari, ecc., a cui i soci possono rivolgersi per le loro esigenze.
Attraverso l’esperienza maturata su migliaia di casi raccolti presso i loro
sportelli, i volontari delle associazioni creano un tipo di sapere e di cultura
nuovo, che è simile a quella dei sindacati o delle associazioni dei consumatori.
In alcuni casi, come quello dell’Associazione Ex (www.exonline.it), vanno a
riempire dei vuoti istituzionali, anche nel campo della ricerca. L’osservatorio
dell’Associazione Ex ha studiato per oltre dieci anni il fenomeno dell’incidenza
dell’interruzione del progetto genitoriale sulla determinazione dei fatti di
sangue in famiglia che sono successivi alla separazione giudiziaria dei genitori
dai figli.
Seguendo l’esempio delle altre associazioni nel mondo, sono state attivate
numerose iniziative tese ad ottenere, sia una visibilità sociale, che una cultura
condivisa. In favore della bigenitorialità e della paternità, si sono svolti, a
Monza il 6-7 novembre 2004, il 1° Festival della Paternità
(www.papaseparati.it), e, a Roma nella primavera del 2003 e 2004, le marce
internazionali (www.MillionDadsMarch.org), tenutesi in contemporanea in 16
paesi. Uno degli ultimi convegni su “Figli contesi: la tutela dei minori nelle
separazioni e divorzi”, svoltosi alla Facoltà di Giurisprudenza a Roma il 20
novembre 2004, ha visto la partecipazione di noti esperti, giudici e presidenti
delle principali associazioni.
Oltre ai grandi eventi collettivi, anche i casi locali, o più specifici, o relativi alle
questioni di singoli associati, vengono affrontati - a livello più capillare - con
manifestazioni di piazza, ovviamente, di portata più limitata.
Inoltre, l’approfondimento della conoscenza delle normative consente alle
associazioni di promuovere iniziative in campo legislativo. Le associazioni
Crescere Insieme (www.crescere-insieme.org) e Genitori Separati dai Figli
(www.gesef.it) hanno ripresentato all’inizio della presente legislatura proposte
di legge per la modifica delle norme sull’affidamento dei figli in sede di
separazione. Tali proposte sono poi confluite nel testo unificato Paniz - p.d.l.
66, ed abbinate - per l’affidamento condiviso, ed attualmente sono discusse
dalle varie commissioni parlamentari. I mass media hanno dimostrato una
sempre crescente sensibilità per le sofferenze di molte famiglie colpite da tali
disagi, ivi comprese le riforme di legge tese a prevenirle.
Quando giungono alle associazioni, i familiari già si sono rivolti, come di
consueto, alle istituzioni ed ai professionisti. Le lamentele più frequenti sono
quelle dell’inconcludenza della prassi giudiziaria e dei metodi di intervento
psicologico; ma anche dell’arido tecnicismo e del distacco professionale che
non possono minimamente contenere la loro sofferenza.
Il loro vissuto è che alle istituzioni pubbliche e allo Stato non interessi granché
della loro sofferenza. Tali vissuti rivendicativo-persecutori si trasformano
facilmente in aggressività rivolta tanto contro le istituzioni che le classi
professionali; a volte perfino contro le associazioni stesse. Quello che scatena
maggiormente tali reazioni è l’atteggiamento svalutante degli operatori della
giustizia o del sociale nei confronti delle rivendicazioni per quella che gli appare
essere un’atroce ingiustizia, la separazione da ciò che hanno di più caro: i figli.
La risposta che ricevono di frequente è quella di essere considerati egocentrici
e vittimisti, incuranti del fatto che quello che viene disposto dalla giustizia è
solo “nel superiore interesse del minore”. Tale incomprensione provoca spesso
una feroce avversione nei confronti degli operatori, i quali pretendono tout
court di fargli inghiottire l’amaro boccone. Difficilmente il familiare riesce ad
accettare il principio che, per difendere una categoria di soggetti deboli,
debbano essere deteriorati i rapporti con coloro che fino ad allora li hanno
protetti; e, per di più, creando un’ulteriore categoria di soggetti deboli e senza
soccorso, quella dei genitori privati dei propri figli.
Il primo compito delle associazioni, pertanto, può solo essere quello di
colludere con le reazioni di dolore difficilmente controllabili che affliggono i
familiari disperati. Gradualmente le loro reazioni emotive verranno incanalate e
prenderanno una forma operativa all’interno delle iniziative dell’associazione.
Laddove il genitore si sente invitato dal sistema a rassegnarsi alla limitazione o
alla perdita del rapporto coi figli, le associazioni, per contro, ne comprendono il
bisogno affettivo disconosciuto, il senso di impotenza, l’angoscia disperante, il
bisogno regressivo di protezione, e ravvivano in loro la speranza di
ricostruzione di quegli affetti che essi temono vadano irrimediabilmente
distrutti.
La partecipazione alla vita delle associazioni consente effettivamente ai singoli
di uscire dall’impotenza del proprio isolamento, e favorisce la trasformazione di
quelle emozioni che, se represse, potrebbero esplodere, esitando in
conseguenze dannose per sé e per gli altri (agiti violenti, omicidi-suicidi,
disturbi psicosomatici o da stress, ecc.).
Così come accade per i gruppi di auto-aiuto, alla lunga, i membri esperti
dell’associazione imparano a svolgere il ruolo di contenimento e trasformazione
delle reazioni emotive di chi si trova in crisi. A poco a poco, gli attivisti dei
movimenti rinforzano le loro conoscenze e le loro iniziative utilizzando la
collaborazione e l’apporto intellettuale di professionisti e uomini di cultura che
sono solidali con la loro causa
Alcuni professionisti, dopo aver tentato - con scarso successo - di partecipare
alle attività delle associazioni, sostengono che esse sarebbero inaffidabili.
Essendo guidate da capi impreparati, afflitti da smanie di protagonismo - che
colludono inconsciamente con i disturbi psicologici non curati dei propri iscritti -
le associazioni coinvolgerebbero i soci in azioni di protesta, impedendogli
l’elaborazione del lutto per la perdita dei figli, e fomenterebbero reazioni di
aggressività che li esporrebbe a rischi, piuttosto che proteggerli. Ripeterebbero
il trauma della separazione, con il solo fine inconscio di rendere infinito il
conflitto. Certo, tali rischi sono possibili - per inesperienza - soprattutto agli
inizi della formazione dei movimenti. Ma è difficile che, se riescono a
stabilizzarsi nel tempo, questi gruppi non possano sviluppare un processo di
consapevolezza e autocritica tali da smussare i difetti di impulsività e
narcisismo maligno che, altrimenti, li porterebbero rapidamente all’estinzione.
E’difficile che essi, nel tempo, non riescano ad allontanare i pericolosi
demagoghi e i falsi profeti.
Anche ammettendo eventuali errori di percorso, nulla potrebbe attualmente
confermarci il sospetto che questo fenomeno in crescente espansione
costituisca solo un meccanismo di difesa degli associati, un acting-out o una
resistenza al processo di elaborazione di un lutto. Potrebbero essere anche i
tecnici del settore a non aver ben compreso le problematiche, e, di
conseguenza, non aver ancora approntato le soluzioni più opportune. Come
disse Freud, a proposito delle difficoltà di sviluppo della psicoanalisi: “Ciò che
non si può raggiungere a volo, occorre raggiungerlo zoppicando… La Scrittura
dice che zoppicare non è una colpa”.

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